28 Lug Manifesto preliminare ad un programma politico
Le seguenti considerazioni sono nate come lavoro collettivo. Le pubblico qui a nome mio non per volermene appropriare, ma perché intendo farne un uso politico in cui non voglio coinvolgere altri (che però sono liberi di rivendicare la sottoscrizione di questo testo). Quanto segue vuole essere un compatto manifesto di principi ispiratori e interpretativi, preliminari alla costruzione di un programma politico alternativo al blocco di potere neoliberale dominante.
1) Oltre Destra e Sinistra
Il nuovo terreno politico che ci si offre deve partire dal riconoscimento del carattere oggi obsoleto e fuorviante dell’opposizione storica tra destra e sinistra. Questo rigetto non va inteso come una moda da cavalcare, ma come la comprensione della fine di un’epoca. Destra e sinistra sono da sempre opposizioni prive di un’identità stabile: a partire dall’origine nella Rivoluzione francese, destra e sinistra hanno rivestito ruoli e incarnazioni diversissimi. Esistono identità teoriche del socialismo, del comunismo, del liberalismo, del tradizionalismo, del conservatorismo cattolico, del giusnaturalismo cristiano, ecc. ecc., ma non esiste un’identità della “destra” o della “sinistra”, se non nella contingenza di più o meno vaghe espressioni giornalistiche.
Nell’ultimo trentennio tanto i partiti sedicenti di destra che i partiti sedicenti di sinistra hanno contribuito ad alimentare e rinforzare un modello liberale e globalista di società. Entrambi hanno contribuito all’adozione di strategie che hanno liquefatto il tessuto sociale, sradicato gli individui, minato il funzionamento di famiglie e comunità territoriali. Entrambi hanno contribuito ai processi di privatizzazione di beni e servizi pubblici senza attenzione ad interessi strategici nazionali; entrambi hanno supportato la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali; entrambi hanno accompagnato l’erosione del welfare e delle tutele del lavoro; entrambi hanno sostenuto una modernizzazione di facciata dell’istruzione pubblica che ne ha decretato il tracollo. Entrambi hanno sostenuto il progressivo passaggio da un ordinamento democratico ad un ordinamento tecnocratico, dove la sovranità viene delegata ad élite opache di sedicenti “competenti”.
Questa convergenza sostanziale di destra e sinistra, che è stata possibile a causa della loro identità intrinsecamente labile, ha rappresentato una vera e propria manovra di camuffamento, un inganno per dissimulare le proprie linee dominanti all’elettorato. Naturalmente non tutto ciò che è cresciuto all’ombra di forze che si pensavano di destra o di sinistra è da buttare, né tutti i singoli protagonisti che vi si sono riconosciuti erano in malafede. Tanto nella destra che nella sinistra sono esistite – per quanto minoritarie – linee di sviluppo critiche del liberalismo, del quale si riconoscevano le tendenze distruttive ed autodistruttive. Ma questa residua vigilanza critica è stata travolta dalla logica del “fronte comune”: contro la destra a sinistra e contro la sinistra a destra. Nonostante la sostanziale intercambiabilità delle politiche, questo trucco retorico, questo appello a compattarsi contro il “nemico” ha funzionato per decenni, consentendo ad una politica senza idee né principi, che non fossero gli interessi del grande capitale, di imporsi senza remore.
Chi a sinistra conservava una diffidenza nei confronti degli imperativi del mercato ha finito comunque per sostenere tutte le forme di dissoluzione dei legami umani (famigliari, affettivi, territoriali, comunitari, tradizionali, naturali, religiosi), in modo perfettamente funzionale a produrre individui isolati alla mercé del mercato, a produrre soggetti fragili, liquidi, pronti a coprire posti da ingranaggio nella macchina globale.
Chi a destra vedeva con sospetto i processi di dissoluzione dei legami famigliari, territoriali, tradizionali, ecc. ha finito comunque per sostenere a corpo morto forme di mercatizzazione generalizzata della società, quando non di vero e proprio darwinismo sociale, alimentando così proprio le forme sociali che devastavano quei legami che si diceva di voler difendere.
Nel contesto del cosiddetto “crollo delle ideologie” l’accoppiata destra-sinistra è perciò divenuta un vero e proprio trucco cosmetico funzionale a mantenere in sella alcuni sopravvissuti delle ideologie che furono, mentre di fatto veniva imposta – travestendola da realtà ultima – l’ideologia onnicomprensiva del neoliberalismo. L’esigenza di mobilità della forza lavoro sul mercato mondiale è stata dipinta strumentalmente come “flessibilità”, “dinamicità”, o persino invocata nel nome dell’“accoglienza” e dell’“ospitalità”. Le richieste di affidabilità poste dal grande capitale, tutelato dalla BCE, sono state presentate come orgoglioso europeismo, in opposizione a biechi nazionalismi. Le esigenze di avere capitale umano sempre illimitatamente a disposizione è stato raccontato come “liberazione dai vincoli oppressivi della famiglia”. La tendenza liberalcapitalistica alla liquefazione di ogni legame, che siano luoghi, persone, culture o tradizioni, è stata presentata come forza emancipativa, che finalmente consentiva agli individui di esprimere le proprie potenzialità (mentre in effetti creava generazioni di individui sempre più solitari e disorientati).
Questo gioco ha fatto il suo tempo. Se vogliamo riaprire lo spazio di una speranza politica fertile dobbiamo lasciarci l’opposizione categoriale tra destra e sinistra definitivamente alle spalle, rompendo l’inerzia di abitudini concettuali e verbali oramai del tutto ingannevoli.
2) Sul ruolo “difensivo” dello stato
La discussione tradizionale sui rapporti tra lo stato e il cittadino ha imboccato da tempo un vicolo cieco, dove si dibatte ciclicamente e sterilmente: se sia necessario espandere o restringere il perimetro dello stato, se abbiamo bisogno di “più stato” o di “meno stato”. Quest’impostazione oscilla tra i poli, posti erroneamente come antitetici, della “libertà” (individuale) e della “protezione” (centrale). Per disinnescare questa falsa partenza bisogna comprendere come nessuna soluzione che restringa lo stato garantisce di per sé maggiore libertà ai cittadini, e inversamente, nessuna soluzione che ne incrementi il perimetro garantisce di per sé maggiore protezione ai cittadini. Non è affatto vero che maggiore protezione debba implicare minore libertà, o viceversa. Libertà e protezione, lungi dall’essere in competizione si possono sviluppare bene solo in sinergia.
Altrettanto vago e inconcludente è il riferimento, così frequente negli anni passati, a quelle formulazioni del “principio di sussidiarietà”, secondo cui “lo stato deve intervenire solo quando il privato non è in grado di operare” o secondo cui “lo stato deve intervenire solo dove la ‘società civile’ non è in grado di operare”. Queste sono altrettante formule vuote, che possono essere – e sono state – strumentalizzate nella maniera più arbitraria.
Partiamo da alcune constatazioni ovvie: non esiste nessuno stato e nessuna società civile senza cittadini e senza relazioni reali, personali, dirette tra cittadini. Non esiste creazione culturale o innovazione scientifica che non nasca “dal basso”, che non maturi in una o più menti individuali e in relazioni dialogiche, interpersonali. Non esiste sentimento di affetto e lealtà che non sia primariamente rivolto alla sfera della prossimità, delle cose, delle persone, dei luoghi che si conoscono e con cui ci si relaziona concretamente. Per queste ragioni la dimensione delle relazioni personali e territoriali, così come la sfera della libertà di iniziativa personale – in ogni ambito – rappresentano necessariamente il livello creativo e affettivo primario, la dimensione in cui emergono e maturano tutti i contenuti e i rapporti degni di essere coltivati e promossi.
Affinché questa dimensione espressiva e creativa possa manifestarsi essa ha però bisogno di essere difesa e sostenuta, e nel mondo moderno, brulicante di minacce provenienti da remoto, difesa e sostegno sono forniti dall’istituzione statale (o da istituzioni simili). Lo stato è dunque un’istituzione astratta, operante “dall’alto”, che però ha l’essenziale funzione di consentire e proteggere la maturazione umana concreta, “dal basso”. Il nucleo tradizionale dello “stato sentinella” richiedeva solo le funzioni di difesa esterna e interna rispetto alla violenza fisica e alle violazioni della proprietà: esercito, polizia, magistratura. Ma nelle società capitalistiche moderne le forme di prevaricazione possono prendere con pari facilità, e pari nocività, la strada del ricatto monetario, dell’emarginazione economica, della destabilizzazione produttiva o della speculazione finanziaria. Nella società moderna squilibri di potere economico diventano squilibri di potere tout court, e l’arma economica è di gran lunga la più versatile (può acquistare ogni mezzo di offesa, dall’armamento bellico, al potere mediatico, all’influenza politica.)
In quest’ottica bisogna uscire dalla falsa questione se ci sia bisogno di “più o di meno stato”, per capire che la questione è “quale stato”. Bisogna orientare il discorso verso l’idea che lo stato non ha compiti creativi, né compiti di conformazione delle menti o dei comportamenti, ma ha compiti derivati dall’obbligo di consentire a persone e gruppi reali di crescere e prosperare iuxta propria principia, secondo le proprie linee di sviluppo. Interventi coercitivi da parte statale sono perciò legittimi se, e solo se, commisurati ad evitare quegli eventi o comportamenti che ostacolano l’espressione e la crescita di individui e comunità.
Questa prospettiva è distante sia dallo stato etico che dallo stato liberale. Va rigettata l’idea di uno stato che assume una sorta di “personalità autonoma”, una “entità sovrapersonale” con una propria agenda indipendente da quella della propria cittadinanza (questa visione tende a sfociare nel totalitarismo). Ma va anche rigettata l’idea dello stato liberale, dove si finge che l’unica forma di negazione della libertà da cui difendersi sia quella dell’autorità tradizionale e della violenza diretta, mentre si lascia la cittadinanza alla mercé dei rapporti di forza e di ricatto economici.
3) Su lavoro e welfare
La libertà che qui si profila è la libertà come autodeterminazione, come capacità (di individui e di comunità) di formulare progetti e di tentare credibilmente di realizzarli. Libertà non è quella dell’uomo abbandonato nel deserto, che – non soffrendo di nessuna esteriore oppressione – ha la libertà di morire di stenti in solitudine.
Il lavoro è parte fondamentale della vita dell’uomo: lo è come fonte di sostentamento e lo è come possibile dimensione di realizzazione personale e sociale. Il lavoro è luogo di partecipazione alla vita collettiva, in cui ciascuno deve poter svolgere un’attività o una funzione, attraverso cui concorrere alla prosperità materiale o spirituale della società, sviluppando le proprie potenzialità e realizzando le condizioni del proprio sviluppo personale. In questo senso, la libertà d’iniziativa economica (la ricerca del proprio lavoro – che sia impresa o collaborazione) è parte essenziale dell’autodeterminazione personale, a prescindere dal fatto che presenti vantaggi produttivi rispetto al lavoro coatto o alla pianificazione onnicomprensiva. A questo livello le contrapposizioni tra lavoro privato e pubblico, tra impresa e lavoro subordinato, sono opposizioni stantie e sterili. Occupazioni diverse richiedono facoltà ed inclinazioni diverse, presentano vantaggi e problemi diversi, ed è sia socialmente che individualmente utile che tale diversità esista e continui ad esistere.
Affinché si possano esprimere le proprie potenzialità sul piano lavorativo bisogna essere protetti dalle molteplici forme di ricatto e di condizionamento che possono verificarsi. Forme di ricatto e condizionamento, bisogna sottolineare, si possono verificare sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo, in forme diverse.
Quanto maggiore la ricattabilità economica di un soggetto, tanto inferiore la propria libertà d’agire e di esprimersi, tanto minori i propri spazi di autodeterminazione: un soggetto che sia in una posizione economicamente fragile e ricattabile subisce per ciò stesso gravi limitazioni alla sua capacità di vivere, progettare, esprimersi. Per limitare queste forme di condizionamento è opportuno che esistano, e siano efficienti:
a) ammortizzatori sociali pubblici (incluse forme di “reddito di cittadinanza”);
b) un sistema pensionistico pubblico capillare;
c) leggi che tutelano la sicurezza sul lavoro, le condizioni di impiego e di licenziamento;
d) servizi pubblici accessibili all’intera cittadinanza nella fornitura di beni e servizi primari (istruzione, sanità, edilizia residenziale pubblica).
Tutto ciò va sotto il nome complessivo di “welfare”, che, nelle sue forme fondamentali, è una garanzia di libertà positiva e agibilità democratica per i cittadini, in quanto ordinamento che minimizza l’esposizione a potenziali ricatti economici. Sapere che se perdo il lavoro potrò comunque mangiare, avere un tetto sulla testa, curarmi, mandare a scuola i figli, ecc. fa un’enorme differenza nel contenere i livelli di ricattabilità e dunque nel fornire margini di libertà reale. Incidentalmente l’esistenza di queste protezioni riducono i tassi di criminalità e illegalità, il che comporta un beneficio sociale complessivo, culturale ed economico.
Va sottolineato però che forme di ricatto specifiche possono condizionare anche l’operato dei datori di lavoro, soprattutto nella piccola e media impresa (di norma priva di partecipazioni finanziarie). Per limitare queste forme di condizionamento servono:
e) garanzie di efficacia nell’esigibilità legale dei crediti dovuti (a partire dall’efficienza della giustizia civile);
f) accessibilità al credito sotto condizioni trasparenti e non usurarie (funzionali in questo senso possono essere sia istituti di credito pubblici rivolti espressamente al sostegno della piccole e medie imprese, sia piccoli istituti di credito privati diffusi in prossimità territoriale);
g) trasparenza e semplicità dei rapporti con l’amministrazione pubblica (l’imprevedibilità e l’arbitrarietà dei rapporti con l’amministrazione pubblica sono gravi fattori di condizionamento e di potenziale ricatto, oltre ad alimentare forme di corruzione).
Ogni cittadino che viva del proprio lavoro deve essere difeso nella propria capacità di farlo limitando l’insicurezza, il condizionamento e il ricatto.
4) Su libertà economica e fiscalità
Le principali forme strutturali di ricatto e di condizionamento economico nella società contemporanea si verificano a causa di due fattori:
1) la percezione di elevati rischi in caso di fallimento economico – che si tratti di perdita del posto o fallimento d’impresa: maggiore il pericolo in caso di perdita del lavoro o impoverimento, minori i margini di libertà e di iniziativa;
2) l’esistenza di eccessive differenze di forza economica (il rapporto tra salari d’ingresso e redditi apicali negli ultimi cinquant’anni è più che ventuplicato a favore dei secondi; e se andiamo alle differenze patrimoniali i rapporti tra la base della piramide sociale e la vetta raggiunge moltiplicatori nell’ordine delle migliaia). Oltre certi limiti le differenze economiche non solo non fotografano alcun possibile “merito”, né rappresentano alcun “incentivo”, ma divengono senz’altro differenze di potere incolmabili, che definiscono livelli di cittadinanza di serie A e di serie B.
Entrambi questi fattori devono essere contenuti affinché un paese possa funzionare in forma democratica e affinché i propri cittadini possano vivere e prosperare liberamente.
Il primo fattore può essere contenuto con interventi come quelli menzionati sopra nel punto 3 (a-g).
Il secondo fattore invece richiede interventi di limitazione della tendenza del capitale di produrre altro capitale con rendimenti crescenti. Questa funzione di contenimento degli squilibri deve essere contemperata con la funzione di autonomizzazione dei singoli agenti economici, che devono trarre dalle proprie attività una fonte di reddito adeguata a motivarne l’iniziativa e (se possibile) ad esprimerne le inclinazioni. In sostanza, un’organizzazione economica funzionale deve tenere fermo un doppio obiettivo: consentire al soggetto economico di esprimere le proprie potenzialità (motivandone, o almeno permettendone l’iniziativa) e impedire la creazione di asimmetrie di potere che travolgano la pari dignità degli individui.
La soluzione principe per tenere sotto controllo questa tendenza è una tassazione progressiva efficiente, modulata su numerosi scaglioni, con una curva che mantiene una crescita moderata per i redditi intermedi, incrementando significativamente in prossimità dell’ultimo percentile. È essenziale intercettare tutte le forme di rendita, specialmente liquida (curiosamente l’unica forma di “privacy” seriamente tutelata oggi è quella sui movimenti del grande capitale). Le capitalizzazioni liquide richiedono particolare sorveglianza in quanto sono potenzialmente molto più invasive e nocive di quelle immobiliari: il capitale finanziario è intrinsecamente disimpegnato rispetto al benessere di qualunque territorio reale, non è vincolato a nessuna realtà concreta, nessuno stato, nessun paese, nessuna cultura, ed è capace e disponibile a reimpiegarsi in tempo reale ovunque nel globo.
La tassazione deve perciò coprire due funzioni primarie:
1) essa serve a fornire le risorse necessarie ad alimentare quelle forme di intervento pubblico che aiutano il coordinamento economico (burocrazia, viabilità, ecc.) e quelle che limitano il ricatto economico (ammortizzatori sociali, previdenza, sanità pubblica, ecc.).
2) In secondo luogo, essa serve ad impedire che nella società si creino divaricazioni di potere economico abissali, perché tali divaricazioni rendono vano ogni funzionamento democratico.
Nella società moderna, dove così tanto è “in vendita”, se ristrette élite di possidenti sovradimensionati si confrontano con masse di spossessati, la democrazia diventa un formalismo vuoto: gli ultimi saranno spesso assoggettati ai primi, disposti a fare qualunque cosa per chi è economicamente in grado di alleviarne la condizione di sofferenza. Ciò conferisce alla ricchezza un potere che non è semplice potere di consumo, ma è potere sulle persone, cioè potere politico. Perciò la tassazione deve operare anche come compensazione di carattere redistributivo, capace di evitare la polarizzazione delle differenze reddituali in molto ricchi e molto poveri.
La tassazione oggi funzionante in Italia non riesce affatto ad espletare adeguatamente queste due funzioni. Essa è caratterizzata innanzitutto da una fiscalità opaca, che impone incombenze molteplici, con un’onerosità burocratica pesantissima che pesa soprattutto sulle piccole imprese. Per questo motivo l’attuale ordinamento fiscale finisce per operare in modo de facto regressivo, pesando maggiormente sulle imprese di piccole e poi di medie dimensioni, e molto molto meno sulla grande impresa. Simultaneamente, nell’ambito stesso della grande impresa vengono premiate comparativamente le attività che hanno una maggiore vocazione finanziaria, rispetto a quelle con una vocazione industriale, giacché la sfera finanziaria ha modalità per eludere la fiscalità e per mobilizzarsi in modo da ottenere condizioni di favore indisponibili all’industria.
La fiscalità di cui c’è bisogno deve invertire radicalmente questa tendenza, riprendendo una dimensione progressiva e non oppressiva, e ciò può avvenire sia semplificando e riducendo gli oneri per la piccola e media impresa che tracciando e tassando efficacemente il grande capitale, specialmente liquido.
5) Su sanità pubblica e ambiente
La salute nomina la dimensione vitale primaria, che a nessuno è dato di sottovalutare o trascurare. Il fallimento di un servizio sanitario pubblico crea gravi condizioni di ricattabilità economica – oltre che mettere a repentaglio l’intero sistema sociale quando si presentino minacce sanitarie di natura collettiva. La salute va intesa in un senso complessivo, integrato: ogni organismo si sviluppa e guarisce come intero, e non come somma separata di parti. Curarsi di una parte dell’organismo senza valutare le ripercussioni su un’altra parte, curarsi di un problema a breve termine, senza curarsi dei risvolti a lungo termine, curarsi del corpo a scapito della psiche, sono altrettanti approcci gravemente erronei, da rigettare senz’altro.
La salute esprime condizioni di equilibrio organico che riguardano ciascun organismo e il suo rapporto con l’ambiente circostante (ambiente fisico e ambiente sociale). È per questo motivo che salute ed ambiente devono essere discussi e trattati come problemi congiunti. Non vedere la compenetrazione della questione sanitaria e di quella ambientale tende a creare da un lato un’idea della salute pubblica come mirata alla sola cura individuale dei sintomi, e dall’altro a pensare all’ambiente come a qualcosa di toto coelo separato (esemplare di questo errore è l’idea che noi saremmo chiamati a “salvare il pianeta”: mentre non è certo “il pianeta” ad essere a rischio, ma il nostro equilibrio con esso, e la nostra vita – insieme a quella di molte altre specie – in esso).
Il sistema sanitario nazionale italiano era uno dei migliori al mondo ed è progressivamente regredito negli ultimi decenni a colpi di “razionalizzazioni”, promuovendo un vasto trasferimento di utenti verso il privato ed una riduzione delle prestazioni coperte dal servizio pubblico. Qui il processo va puramente e semplicemente invertito. In un paese dove quasi 50.000 persone l’anno muoiono per infezioni contratte in ospedale, non c’è nessuna discussione in termini di “razionalizzazione” che tenga: bisogna mettersi in testa di ripristinare un sistema che è stato smontato, ripristinarlo in forme magari più efficienti e meglio organizzate, ma comunque innanzitutto ripristinare ciò che si è distrutto.
Il primo compito di un sistema pubblico della sanità dev’essere quello di mantenere in salute i sani, e di riportare in salute i malati, non quello di medicalizzare l’esistenza di tutti. In quest’ottica ciò che mancava, e ancora manca, è un’interazione tra tematiche sanitarie e ambientali. La salute è innanzitutto una variabile dipendente dall’ambiente circostante, laddove questo ambiente è sia ambiente sociale che ambiente fisico. Aver cura dell’ambiente in entrambe queste accezioni produce la forma primaria di prevenzione di ogni patologia.
Sul piano sociale, dopo anni in cui questa dimensione era ampiamente studiata, si è abbandonata quasi completamente l’analisi del nesso tra disfunzionalità sociali e disfunzionalità comportamentali (psicopatologie).
Sul piano naturale le tematiche ambientali tendono ad essere esaminate in modo parcellizzato. Negli ultimi anni ci si è artificialmente concentrati, ad esempio, sul “riscaldamento globale” (tra tutte le questioni una delle più difficili da chiarire scientificamente). Si è invece rimosso quasi integralmente ogni studio sistematico relativo all’impatto sulla salute di altre variabili ambientali antropiche, variabili investigabili molto più direttamente di un processo cosmologico come quello delle cause della temperatura planetaria. Dalle nanoplastiche, agli interferenti endocrini, dall’inquinamento elettromagnetico, ai nitriti e alla miriade di sottoprodotti della zootecnia intensiva e della agricoltura intensiva che finiscono nelle falde acquifere, ai particolati nelle vie aeree, fino al degrado dell’ambiente sociale (non meno nocivo del degrado fisico), tutti questi sono fattori gravemente lesivi sul piano della salute su cui l’attenzione della sanità pubblica latita. Manca un tentativo sistematico di investigare le correlazioni epidemiologiche tra queste variabili ambientali e specifici problemi di salute, di cui si continuano a registrare incrementi esponenziali (dai tumori, ai problemi di fertilità, alle malattie autoimmuni, all’autismo infantile, alle psicosi depressive, ecc.). In quest’ottica andrebbero tassativamente introdotti sistemi di monitoraggio di tipo epidemiologico, capaci di rilevare le distribuzioni nel tempo e nello spazio di certe condizioni patologiche, in modo da indagarne le eventuali correlazioni con variazioni nell’ambiente fisico (o sociale).
Il modello di sviluppo attuale produce una rincorsa – strutturalmente perdente – tra due dinamiche: da un lato mutamenti ambientali nocivi vengono indotti dalla frenetica competizione produttiva e tecnologica, dall’altro l’inventiva del mercato farmaceutico cerca di porre rimedio ai problemi creati. Si tratta di una rincorsa tra due istanze di mercato: accelerazione di mutamenti tecnologici e produttivi per guadagnare fette di mercato e accelerazione della vendita di correttivi farmaceutici ai danni che emergono: si producono in una costante accelerazione danni alla salute e dispositivi sanitari per ripararli, cercando affannosamente di stare al passo. La rincorsa terapeutica è però sempre in fatale ritardo e il processo tende ad essere degenerativo: così, pur avendo maggiori conoscenze mediche rispetto a qualunque epoca del passato, questo non significa necessariamente che la salute media sia migliorata (lo è per le persone naturalmente soggette a decadimento fisico, come gli anziani).
Così, per dire, stiamo causando in vari modi una riduzione della fertilità, ma invece di concentrarci sull’isolamento delle cause ed arrestarle, escogitiamo tecniche riproduttive artificiali (es.: fecondazione eterologa) o soluzioni di mercato (es.: gravidanza surrogata). Questo modo di agire dà l’impressione di vivere in una società “attenta ai problemi individuali” e induce ad applaudire le soluzioni trovate, mentre in verità è massivamente indifferente ai problemi di sistema, e usa l’attenzione selettiva per alcuni problemi individuali come leva per sostenere agende indipendenti. Questa rincorsa da soluzione ingegnosa in soluzione ingegnosa, da trionfo tecnologico in trionfo tecnologico, conduce invece costantemente lungo un declivio degenerativo. L’unico modo serio di trattare sia la salute dell’individuo che quella dell’ambiente è di tipo sistemico, guardando all’insieme dei rapporti, e non selezionando singole istanze isolate.
La tendenza “accelerazionista” dovuta alla convergenza tra la spinta concorrenziale del capitale e la “volontà di potenza” tecnologica rappresenta di per sé uno dei principali orizzonti di rischio della nostra epoca. Le potenzialità aperte dall’ingegneria genetica creano una prospettiva di sradicamento ultimativo dell’umano, una minaccia epocale rispetto a cui la sorveglianza pubblica e l’implementazione di stringenti vincoli legali costituiscono un dovere politico primario.
6) Su scuola e università
Lo scopo dell’istruzione pubblica è di condurre le nuove generazioni alla capacità di autodeterminarsi consapevolmente come cittadini, sia sul piano pratico (come contributo lavorativo) che su quello teorico (come autocomprensione). Questo principio è stato tradito in modo esteso e crescente. Così come la sanità è stata destrutturata nel corso degli ultimi decenni, lo stesso è avvenuto per l’istruzione, scolastica e universitaria. A fronte di un definanziamento costante, che ha alimentato il precariato della docenza, tradito il diritto allo studio, creato classi pollaio e mantenuto le infrastrutture in condizioni spesso ai limiti dell’agibilità, abbiamo visto negli ultimi anni una spinta continua verso una qualificazione farlocca dell’istruzione attraverso una pletora di processi di “misurazione”. Con l’illusione di dare una veste “scientifica” alla valutazione, la scuola e l’università pubblica sono state riempite di parametri esterni, di “target”, processi premiali da suq, trafile di attestazioni burocratiche che hanno rimpiazzato come attività primaria lo studio e l’insegnamento. Un’infinità di energie e risorse sono oggi impiegate in una sceneggiata nevrotizzante e sterile in cui bisogna soprattutto dar a vedere ai valutatori (e ai “clienti”) di star proponendo “progetti innovativi”, “internazionalizzazione”, “didattica smart”, “nuove tecnologie” e modernizzazioni di facciata, che lasciano i docenti di ogni ordine e grado con forze sempre più limitate da dedicare al cuore dell’attività formativa.
Questo processo di competizione tra istituti autonomi che si sbracciano per ottenere visibilità e finanziamenti è espressione di un modello neoliberale in cui lo stato “imita” i processi di competizione del mercato anche dove non avrebbero applicazione. Assistiamo così ad una pseudo-aziendalizzazione dell’istruzione che assume tutti i difetti dei meccanismi di mercato senza averne i pregi. Questo meccanismo di competizione pseudo-aziendale ha tra i suoi difetti di impianto “mercatista” quello di aumentare le disparità tra gli istituti di formazione, rafforzando i già forti e indebolendo i più deboli.
Al tempo stesso, nel nome dell’ennesima “modernizzazione”, scuola e università vengono concepiti sempre più come meccanismi di trasmissione di idee alla moda, di inclinazioni benpensanti correnti, di imperativi moraleggianti e teorie politiche travestite da ovvietà morali (ad esempio l’europeismo acritico, venduto come “rimedio alla catastrofe delle guerre mondiali”). Invece di fornire ai discenti strumenti culturali per renderli autonomi, e stimoli per sviluppare criticamente tale autonomia, la scuola diviene sempre di più un luogo in cui ci si deve assicurare che chi ne esce ne esca “con le idee giuste”.
Nel nome di un richiamo distorto al “rispondere alle esigenze del mondo della produzione” la scuola è stata spinta simultaneamente alla semplificazione dei programmi nelle loro componenti tradizionali e all’introduzione di una falsa concretezza (didattica per competenze, alternanza scuola-lavoro, ecc.), che di fatto conduce soltanto ad una riduzione di consapevolezza e all’accettazione del proprio destino come ingranaggi mobili in un sistema fisso.
La spinta verso i saperi STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), e l’incentivazione alla ricerca applicata rispetto a quella di base, procedono di nuovo nella medesima direzione, ovvero quella di una riduzione della consapevolezza di sistema e del senso critico verso il mondo circostante. In un sistema in cui i lavori scientifici sono “prodotti” e gli studenti sono “clienti”: l’obiettivo da raggiungere non è più affatto una cittadinanza consapevole – e operativamente abile – ma la produzione di meccanismi di trasmissione funzionali ad un sistema pre-dato.
Naturalmente non si tratta di contrapporre in modo stantio le “scienze umane” alle “scienze naturali”, né di proclamare una presunta superiorità dell’astrazione teorica sull’intelligenza pratica. Questo sarebbe di nuovo un fraintendimento, solo di segno opposto. Un’astrazione teorica che non sia capace di scendere in terra e di vivere in un mondo di azioni e reazioni reali, che non sia in grado di rapportarsi con le cause e gli effetti immanenti nella propria quotidianità è una forma di sapere monco, deformato e tanto acritico quanto quello di chi è culturalmente deprivato. Similmente, le scienze naturali non sono affatto “per essenza” portatrici di una forma mentis acritica, e simmetricamente la frequentazione delle scienze umane – se non esce dall’astrazione – può rendere più ciechi al mondo circostante di qualunque formazione tecnoscientifica. Il problema dunque non sta nell’opporre scienze umane e scienze naturali, o astrazione e concretezza, ma riguarda la retorica che è stata costruita su ciò, dove per “concretezza” si spaccia l’addestramento spicciolo a occupare un posto predeterminato, e dove per “qualifica scientifica” si spaccia la spendibilità settoriale in processi produttivi predefiniti. Questa retorica viene promossa nel nome delle necessità del mondo del lavoro, ma essa fallisce sistematicamente questo obiettivo, perché le competenze lavorative specifiche sono in mutamento con rapidità maggiore di quanto qualunque programma scolastico possa registrare e qualunque corpo docente possa apprendere. L’idea che dalla scuola o dall’università possano uscire “prodotti finiti” da inserire subito in un sistema produttivo – a sua volta in mutamento costante – è un’illusione nociva che danneggia la formazione di base senza produrre alcun vantaggio al mondo del lavoro. Il risultato di questo sguardo apparentemente rivolto alla concretezza utilitaristica è in effetti solo quello di creare una gioventù dotata di ridotto senso critico, grandemente disorientata, con una consapevolezza impoverita di sé e del mondo circostante, e precocemente rassegnata ad occupare quello slot provvisorio che, se meritevoli e fortunati, verrà loro precariamente assegnato.
7) Su sovranità, multipolarismo e questione migratoria
Nel punto 2) abbiamo visto come nei rapporti tra individui, famiglie e comunità territoriali da un lato e stato centrale dall’altro, i contenuti propulsivi siano monopolio della prima dimensione, “dal basso”, e come lo stato abbia una funzione sovraordinata di difesa e coordinamento, finalizzata a consentire alla prima dimensione di esprimere le proprie potenzialità. Il medesimo canone può essere applicato nei rapporti tra stati, dove la dimensione “dal basso” è qui rappresentata dai singoli stati nazionali, in quanto rappresentanza più prossima degli individui e delle comunità territoriali, mentre eventuali organismi sovranazionali possono trovare giustificazione con funzioni di difesa o coordinamento economico. Incidentalmente questo significa, ad esempio, che è sempre ingiustificabile che organismi sovranazionali (es.: ONU, OMS, UE, ecc.) si facciano carico di dare indicazioni culturali o di costume alle singole nazioni, o che contribuiscano a redigere programmi scolastici o universitari, da implementare all’interno dei singoli stati.
Come l’ideale da perseguire entro gli stati è l’autodeterminazione consapevole degli individui e delle comunità, così l’ideale da perseguire nei rapporti tra stati è l’autodeterminazione dei popoli, il perseguimento delle proprie linee di sviluppo, conformi al proprio tracciato storico-culturale e alla propria collocazione territoriale. In collisione frontale con questa prospettiva stanno il progetto imperialista, così come quello globalista, in quanto assumono che un’unica civiltà, un’unica forma di vita, un unico modello economico siano naturalmente ottimali e vadano estesi di diritto ad ogni popolo e ad ogni latitudine.
Naturalmente, assumere il principio di autodeterminazione e indipendenza nei rapporti tra nazioni non significa assumere che ciascun costume, ciascuna legge, ciascuna credenza all’interno di ogni nazione debba essere ritenuta naturalmente giusta, “sacra”, immutabile. Ci possono essere usi, costumi, credenze e norme che, all’interno come all’esterno, appaiono erronee, insensate, persino inumane. Dall’esterno nessuno ci vieta di esprimere le nostre perplessità verso leggi e costumi altrui. Ma quali che siano le nostre più benintenzionate opinioni, nessuna prospettiva esterna sarà mai in grado di immaginare soluzioni complessivamente più funzionali di quelle che possono maturare dall’interno di ciascuna realtà (ciascuno stato, ciascuna cultura). Possiamo ritenere che la democrazia sia una forma di governo migliore di un’autocrazia a base ereditaria, ma questo non significa che sia senz’altro possibile o sensato trasporre e imporre un modello istituzionale democratico, se esso è estraneo a quella realtà sociale. Quando invece questo accade, quando si cerca di esportare di peso un modello istituzionale estraneo, si producono regolarmente gravi danni preterintenzionali, squilibri collaterali, che inducono forme di degenerazione, degrado e arretramento nella civiltà coinvolta. Ciascun popolo, ciascuno stato, di principio, deve trovare le proprie soluzioni. Una volta ideate, può magari chiedere un aiuto esterno per implementarle, ma la genesi della soluzione deve essere endogena.
Questo principio di sovranità primaria ha valenza generale ed opera in contrapposizione strutturale con ogni pretesa imperialistica e globalistica. Questa visione perciò sostiene una prospettiva multipolare nei rapporti tra le nazioni, dove si assume che, in presenza di asimmetrie di potere tra diverse nazioni, sia comunque auspicabile l’esistenza di una pluralità di poli di attrazione (“potenze”). L’esistenza di una pluralità di poli approssimativamente equipotenti rende meno ricattabili le potenze minori, gli stati più deboli, giacché questi possono essere contesi da sfere d’influenza differenti e possono giocare la carta di una relativa equidistanza. Il multipolarismo è la “democrazia” possibile in un campo dove essa è formalmente impossibile, cioè nei rapporti tra nazioni.
In quest’ottica dev’essere valutata anche ogni politica relativa ai processi migratori. Né l’emigrazione, né l’immigrazione possono essere forme normali di risoluzione dei problemi interni ad un paese. Un paese che faccia fuggire sistematicamente da sé interi blocchi della propria popolazione ha un problema e crea problemi ad altri; può essere aiutato a farsene carico, in presenza di squilibri momentanei, crisi occasionali o catastrofi naturali, ma nessun paese può assumere che l’emigrazione sia una forma normale con cui sciogliere le proprie contraddizioni: ciò che è emigrazione per un paese è immigrazione per un altro, e non esiste, né può esistere di principio, alcun diritto automatico d’accesso ad altri paesi. Il soccorso umanitario è doveroso, ma deve avere la natura di un intervento straordinario, in presenza di eventi altrettanto straordinari, non come modalità fisiologica di risoluzione dei problemi.
Non bisogna confondere l’occasionale libera scelta di tentare la propria fortuna altrove con l’emigrazione di massa. Quest’ultima è una forma altamente disfunzionale e forzata di fornire sollievo momentaneo, e tende sistematicamente a creare ulteriori squilibri. I processi migratori sono un campo in cui la quantità è qualità. Lo spostamento volontario, su tempi dilatati, di individui o piccoli gruppi tra paesi diversi può avere una funzione benefica sia sul piano culturale che economico, al contrario rapide migrazioni di massa, forzate dalla situazione drammatica dei paesi di partenza non rappresenta niente di simile ad una libera scelta, e rappresenta un danno sia per la popolazione del paese di partenza che per quella di arrivo. Il migrante obbligato a lasciare la propria terra per sfuggire alla miseria o alla guerra è un evento calamitoso per sé e per gli altri, non deve essere tinteggiato con i colori dello spirito di avventura o del piacere della contaminazione culturale, con cui non ha nulla a che spartire.
Tassi di migrazione elevati e incontrollati operano sistematicamente come creatori di squilibrio sociale, mettono a dura prova le strutture di welfare dei paesi ospitanti, possono fornire alimento alla criminalità e creano uno strato di manodopera ricattabile e disposta a tutto, con un effetto deleterio di compressione salariale. Perciò immigrazioni massicce su tempi brevi risultano fatali sia economicamente che culturalmente per i sistemi sociali che le subiscono, creando condizioni in cui lo sfruttamento, la precarietà e il ricatto crescono verticalmente. Il controllo e la moderazione selettiva dei tassi di ingresso, insieme alla collaborazione solidale con i paesi di emigrazione, rappresentano un dovere politico primario per chiunque creda che un paese non sia semplicemente una funzione accessoria della mobilità del “capitale umano”. È naturalmente interesse comune promuovere processi di integrazione efficace, non meramente parolaia, nei confronti di tutti gli immigrati legittimamente residenti.
8) Principi guida
L’uscita dall’oramai fuorviante opposizione tra destra e sinistra deve prendere la strada di un recupero di principi e valori rimasti latenti e minoritari in entrambe le aree, producendone una sintesi nuova.
In sunto, sono perciò principi guida, da valorizzare in un programma politico:
I) La libertà positiva, libertà come autodeterminazione, come partecipazione e capacità di realizzazione, non come mera libertà negativa (libertà dalle interferenze altrui). Questa libertà di giudicare e determinare le proprie linee di sviluppo, di esprimere le norme che definiscono il proprio orizzonte di vita vale per gli individui e per le comunità. Vale sempre per le comunità (o popoli), nei limiti in cui non procurino danni al di fuori di esse, e vale sempre per gli individui, purché maggiorenni, capaci di intendere e volere, e purché l’espressione della propria libertà non danneggi altri. In mancanza di una prova che qualcuna di queste condizioni limitative sussiste, il principio vale illimitatamente.
II) Un secondo principio da valorizzare ha un carattere bicipite: la formazione pubblica, mirata al raggiungimento della piena facoltà di autodeterminazione, e l’informazione plurale, mirata al mantenimento della capacità di autodeterminazione. L’educazione deve mirare a condurre il cittadino per gradi, dall’infanzia all’età adulta, dall’eteronomia all’autonomia. L’educazione non è addestramento, ma valorizzazione delle potenzialità. Formazione e informazione cooperano nella maturazione della cittadinanza. Una volta che un’educazione qualificata ci ha accompagnato all’autonomia, affinché essa non venga erosa e dispersa è necessario garantire l’accesso a materiali informativi plurali. Un’informazione asservita o censurata è una ferita mortale alla facoltà di autodeterminazione consapevole.
III) L’eguaglianza come pari dignità, che include una tensione all’inclusività, alla mutua solidarietà e alla disponibilità di pari possibilità aperte ad ogni persona. Nessuna di queste dimensioni può essere efficacemente ottenuta attraverso obblighi né con un livellamento forzoso di inclinazioni, facoltà e tendenze. Affinché una società sia un’unione armonica di “pari” la dignità, l’inclusione e le possibilità devono emergere il più spontaneamente possibile, devono essere l’esito di un libero processo di mutuo riconoscimento, per cui vanno predisposte condizioni facilitanti, ma non obbliganti. Credere che tali principi possano essere invece realizzati con imposizioni che “obblighino” alla pari dignità o all’inclusività è illusorio e controproducente.
IV) La comunità come sfera sociale di prossimità, dove maturano lealtà, affetti e significati primari, al di là dei rapporti contrattuali e pattizi, al di là delle norme formali e dell’intermediazione legislativa. Per quanto si possa forzare il concetto di comunità fino a includere la “comunità nazionale”, la comunità in senso primario e fondamentale è definita dallo spazio dei rapporti diretti, faccia a faccia. Se questa base relazionale funziona armonicamente, su di essa si possono costruire ambiti di rapporti potenziali, indiretti, cui estendere la fiducia.
V) La famiglia, come sfera sociale qualificata dalla riproduzione e dall’educazione primaria delle generazioni a venire. Diverse associazioni di interessi e di affetti possono ottenere legittimazione giuridica e riconoscimento sociale, tuttavia la famiglia nel senso qui definito deve ricevere una tutela pubblica particolare e dedicata, in quanto ricopre una funzione di interesse pubblico, come primo luogo generatore della società a venire. In questo compito le unità famigliari devono essere attivamente sostenute, e particolare sostegno deve essere dedicato ai carichi della maternità e della cura della prole (potenziali latori di svantaggio proprio per chi si fa direttamente carico di questa dimensione socialmente cruciale).
VI) La democrazia reale, come possibilità concreta per ciascun cittadino di partecipare alla vita istituzionale delle proprie comunità. La democrazia è forma istituzionale atta a costruire la rappresentanza politica e ad esprimere la sovranità popolare, nel rispetto della dialettica politica e delle minoranze. Le condizioni di partecipazione democratica devono essere favorite, a partire dalla dimensione comunitaria, che ne è prima espressione. Una democrazia per essere reale e non formale – come la Costituzione italiana esemplarmente mostra – deve farsi carico di operazioni di perequazione e redistribuzione che impediscano alle differenze di potere sociale di ampliarsi oltre misura.
VII) Il territorio come ambito di appartenenza a luoghi naturali e realtà urbane, ereditati dalle generazioni precedenti e da lasciare in eredità integre o migliori alle generazioni future. Il territorio è un’appartenenza a doppio senso: è qualcosa che appartiene a chi vi abita, ma anche qualcosa cui gli abitanti stessi appartengono. Il territorio, urbano, architettonico e naturale, produce forme di vita in comune, produce atteggiamenti, disposizioni, costumi che contribuiscono a definire identità, reciproche lealtà e progetti di lungo periodo.
VIII) L’equilibrio naturale, come salute dell’organismo e come rapporto armonico tra uomo e ambiente. Concepire tanto la salute personale che quella dell’ambiente sotto la voce dell’equilibrio naturale significa dare la priorità ai processi di conservazione degli equilibri vigenti e al ripristino di quelli scossi, prendendo le distanze dall’idea di poter “reinventare” l’umano o la natura, o di poter isolare l’umano dalla natura, medicalizzandone l’esistenza. La natura non è una distesa di mezzi a disposizione dell’umano: la natura attraversa da parte a parte l’umano.
IX) La cultura come continuum storico di saperi, costumi, significati pratiche sociali, che abbiamo il dovere di apprendere e coltivare, così come abbiamo la possibilità di trasformare e integrare. Questa è la dimensione che consente -quando vi sono – la mutua comprensione, l’accordo, il raggiungimento di verità e di credenze condivise. Questa è la dimensione che permette una continuità degli individui nel tempo all’interno di un’identità mobile. Lo stesso duplice rapporto di appartenenza che abbiamo nei confronti del territorio lo abbiamo, in forme diverse, nei confronti della tradizione culturale, che è “nostra” nel doppio senso: ci appartiene e ci definisce. Prendersi cura di questa sfera, che dà forma alla vita pubblica, significa farsi carico di renderla disponibile al pubblico.